15 Giu La disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato nella P.A. dopo il Jobs Act e le recenti sentenze di merito e legittimità
Il contratto di lavoro a tempo determinato per lungo tempo è stato disciplinato dal d.lgs. 6 settembre 2001, n. 368, recante norme per l’attuazione della direttiva comunitaria n. 1999/70/ CE relativa all’Accordo quadro del 19 marzo 1999 sul lavoro a tempo determinato sottoscritto dalle organizzazioni intercategoriali a carattere generale.
Tale decreto è stato recentemente abrogato dal d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81, emanato in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183.
Tuttavia la nuova disciplina del lavoro a tempo determinato, dettata dagli artt. 19-29 del d.lgs. n. 81 del 2015, ricalca per molti versi quella del d.lgs. n. 368 del 2001 risultante dalle modifiche ed integrazioni apportate dalla legge 16 maggio 2014, n. 78, di conversione del d.l. 20 marzo 2014, n. 34.
La regolamentazione del contratto a termine è applicabile, oltre che al lavoro privato, anche al lavoro pubblico, salvo alcune eccezioni relative all’apparato sanzionatorio, dovendosi fare applicazione del principio secondo il quale la violazione dei limiti di legge, diversamente dal settore privato, non comporta la trasformazione del rapporto a tempo indeterminato, secondo la lettera dell’art. 36, comma 2, d.lgs. n. 165 del 2001.
La nuova disciplina, come prima il d.lgs. 368 del 2001, non fa alcun riferimento ai rapporti a tempo determinato alle dipendenze della pubblica amministrazione, rispetto ai quali ne rimane chiaramente l’applicabilità.
Nel pubblico impiego in particolare si evidenzia quanto segue:
A)Per esigenze di carattere esclusivamente temporaneo o eccezionale le amministrazioni sono obbligate ad utilizzare le graduatorie vigenti per concorsi a tempo indeterminato, anziché indire nuove procedure concorsuali a tempo determinato;
B) Le graduatorie dei concorsi a tempo determinato possono essere utilizzate solo per l’assunzione dei vincitori, rimanendo precluso lo scorrimento per gli idonei.
In base all’art. 19 del d.lgs. n. 81 del 2015, la stipulazione di un contratto a termine per lo svolgimento di mansioni di pari livello e categoria legale fra datore di lavoro e lavoratore è consentita per una durata non superiore a 36 mesi, ma il superamento di un nuovo concorso pubblico a tempo determinato da parte di una persona che ha già avuto un rapporto a termine con l’amministrazione consente di azzerare la durata del contratto precedente al fine del computo massimo dei trentasei mesi.
L’art. 21 del d.lgs. n. 81 del 2015 ammette la proroga solo per i contratti a termine con durata iniziale inferiore ai tre anni ad una duplice condizione: per cinque volte e comunque senza mai superare una durata massima complessiva di 36 mesi, e con il consenso del dipendente.
L’aspetto centrale ed attuale della materia riguarda le conseguenze sanzionatorie all’illegittima apposizione del termine regolate dall’art. 36, co. 5 del d.lgs. n. 165 del 2001, secondo il quale la violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori, da parte della pubblica amministrazione, non può comportare la costituzione di rapporti d lavoro a tempo indeterminato con la pubblica amministrazione, ferma restando ogni responsabilità e sanzione.
La Corte di Giustizia Europea si è pronunciata nel settembre 2006, affermando che la normativa italiana, che prevede il risarcimento del danno subito dal lavoratore a seguito del ricorso abusivo della pubblica amministrazione a una successione di rapporti di lavoro a tempo determinato sembra conforme alla direttiva comunitaria n. 1999/70/ CE.
Tuttavia, spetta al giudice nazionale valutare in quale misura le condizioni di applicazione, nonché l’attuazione effettiva dell’art. 36 del d.lgs. n. 165 del 2001, ne fanno uno strumento adeguato a prevenire e, se del caso, sanzionare l’utilizzo abusivo da parte della pubblica amministrazione di una successione di rapporti di lavoro a tempo determinato.
Tali conclusioni sono state riaffermate dalla stessa Corte Europea nel 2010 (ord. 1 ottobre 2010, c. 3/10) e nel 2013 (ord. 12 dicembre 2013, c. 50/13), precisando in quest’ultima che la conseguenza risarcitoria è misura conforme al diritto europeo a condizione che la prova da addurre per ottenere il ristoro non renda impossibile o eccessivamente difficile la tutela del lavoratore.
Un indirizzo minoritario, inaugurato da una sentenza del Tribunale di Siena, ha ritenuto la sanzione del risarcimento non sufficiente a prevenire gli abusi, in quanto priva di effettività, proporzionalità, dissuasività, disapplicando l’art. 36 del d. lgs. n. 165 del 2001 e condannando l’amministrazione alla conversione a tempo indeterminato del contratto a termine nullo (sul punto vedi infra, le due sentenze del Tribunale di Trani del 2012 e 2015).
La giurisprudenza maggioritaria ha invece ritenuto preclusa la conversione a tempo indeterminato. Il legislatore precisa che i contratti collettivi nazionali stipulati coi sindacati comparativamente più rappresentativi possano determinare i limiti quantitativi del ricorso al contratto a termine, sia causale che acausale, “anche in misura non uniforme” e dunque con eventuali differenziazioni parametrate alle aree geografiche o ai comparti merceologici o alle dimensioni aziendali.
Casi di esclusione del contratto a termine sono previsti:
• Per la sostituzione di lavoratori in sciopero;
• Per assunzioni presso amministrazioni che abbiano proceduto nei sei mesi precedenti al collocamento in disponibilità del personale eccedente (istituto corrispondente al licenziamento collettivo) qualora si tratti di personale adibito alle medesime mansioni;
• Per assunzioni da parte di amministrazioni, che non abbiano effettuato la valutazione dei rischi.
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Giuseppe Colucci